Gli utopisti si sono dedicati con la maggiore ostinazione e serietà a discutere di due cose. La prima, i bambini – cioè il futuro, la formazione delle nuove generazioni, dei nuovi nati, l’aiuto che è possibile dar loro affinché diventino individui in grado di controllare, nei 1imiti del possibile, le proprie scelte, e avvertano la responsabilità che comporta esser membri della comunità umana. La seconda, la città – i modi e luoghi della convivenza, l’armonia della solidarietà, la vita comune. Uno di loro, Colin Ward, ha dedicato qualche anno fa un bellissimo libro alle due cose insieme: I bambini e la città (L’ancora del Mediterraneo). La base della sua riflessione può venire così riassunta: una città è una buona città se è buona per i suoi abitanti bambini, se essi non vi sono soffocati e costretti, se vi hanno i loro spazi di esperienza e di scoperta, le loro protezioni e le loro libertà. Dunque, il fallimento è evidente. Basta guardarsi intorno per capire che la realtà è tutta diversa e che le città odiano i bambini. (Prima di tutto, si può dire, li odiano i sindaci). Le città appartengono ai mercanti e alle loro consenzienti vittime, i consumatori. Appartengono ai turisti, membri estranei per definizione alle responsabilità comunitarie. Appartengono soprattutto alle automobili. La strada, diceva un tempo Carlo Levi, ” è la casa degli italiani” ma oggi è diventata, al più, il garage degli italiani. Non erano fatte per le macchine, le nostre città, ma sono costrette ad adeguarsi con fatica e con dolore, restandone, le più belle e armoniche, le più “pensate per l’uomo”, irrimediabilmente sconciate. Le città che conosciamo sono di due tipi: quelle piccole o medie, ordinate – l’Europa, ex civiltà di comuni, ne è ricchissima. Vivervi è piacevole, in generale ci sono servizi decorosi, spazi e verde sufficienti. Ma in esse, come nei villaggi di un tempo, il peso della noia e del conformismo, del controllo sociale (qui esercitato da maggioranze piccolo-borghesi o; ossesivamente attente alle proprie abitudini) possono risultare insopportabili. E bello riposarvi una, due settimane, ma poi? Poi si scappa nell’altro modello di città, la grande, perlopiù disordinata. Le ordinate, infatti, non si tarderà ad accorgersi che somigliano da matti, solo più in grande, alle piccole e medie da cui si è fuggiti, con sola variante (fondamentale) che lì si è in tanti e che si finisce sempre per trovarvi il tipo umano che ci somiglia, con cui si ritiene di avere gusti e passioni da condividere. Ma ci sono anche le disordinate, in Italia per esempio Roma e Napoli, dove il disordine è davvero disordine, e che in qualche modo somigliano, ma con differenze economiche enormi perché non povere, alle immense città del sud del mondo, asiatiche o africane o latino-americane. Somigliano, o somigliavano: città di grandi estensioni e di grandi confusioni, il cui fascino deriva proprio dal disordine, dalla sensazione che tutto vi sia perennemente mutevole e che l’individuo vi conti pochissimo, che sia costretto a perdersi nella massa, e di conseguenza è costretto a difendere la propria individualità. Erano così anche la Parigi di Hugo o la Londra di Dickens o la San Pietroburgo di Dostoevskij o, ancora, la Napoli di Mastriani. Città “invivibili”, o alle quali, chi non vi è cresciuto così come si cresce nella giungla, faticherà ad adattarsi. Città “pericolose” e però, in qualche modo, affascinanti proprio per il loro “pericolo”, per le continue sorprese e novità che riservano a chi è d’animo avventuroso e curioso; città di tante diversità che si appartano o che s’incrociano (che sono costrette a incrociarsi) e che per questo possono ancora sembrare, come ai ragazzi dell’ottocento fuggiti dalla provincia e dalla campagna in cerca di avventura e di libertà, narrati da mille romanzi, i luoghi di ogni possibile, i luoghi della sperimentazione, dell’incontro, dell’autodeterminazione. La contraddizione è bruciante. Ieri gli urbanisti erano tutti per la città razionale – fin troppo razionale, e anche il nostro amato Mumford (e il nostro amato Olivetti che lo pubblicava e diffondeva) finiva un po’ per spaventarci: troppo bella e troppo armoniosa, la sua città, troppo poco “dialettica”, con il rischio di fissità, di un ordine elegantemente e democraticamente costrittivo, del rifiuto di ogni sregolatezza e varietà vitalmente “contraria”. Oggi sembrano essersi convertiti tutti alla legge dello sviluppo capitalista e imperialista della città-territorio, e si assiste sempre più spesso a esaltazioni dell’ex-beltà ormai brulicante di automi e immondizie organiche varie che è la Brianza, che è Roma. Certo, se si viene da una di quelle città ripulite e disneyzzate dove poco succede (in vista; ma la notte, ma nell’ombra?) il disordine ha qualcosa di attraente, ci può apparire un luogo vivo perché è il contrario di quei raffinati, “signorili” parcheggi di zombies. Dov’è il giusto? Si è tentati, di fronte a quei servi della storia e del “progresso” cioè dei “padroni” che sono sia gli urbanisti arredatori-igienisti – che amano le città disinfettate e omogeneizzate secondo uno schema unico di supermercati e giardinetti denaturati, tutti uguali e inodori e insapori – sia i loro speculatori confratelli che esaltano il disordine del “libero” anzi liberistico sviluppo voluto da avvoltoi, vampiri e cavallette del capitale e del consumo, si è tentati di lasciar perdere, di accettare fatalisticamente gli opposti disastri. La nuova razionalità che si è un tempo invocata è stata sconfitta, quella di un equilibrio tra i sogni e i bisogni, tra gli spazi del desiderio e dell’imprevisto e gli spazi della tranquillità e del bene stare, una città “a misura di bambini” e quindi di lavoro e di gioco, di ordine e di disordine, di regole e di sregolatezze. Allora, forse, non ci resta che spostarci a seconda di un nostro interno sentire che cambia e che torna, che vuole ora il bello e ora il brutto ora l’armonico e ora il disarmonico, tra la piccola-media città linda e gelida e la grande città (ma che sia almeno meridionale, e davvero caotica!) calda e avventurosa, ancorché sudicia e mal servita… Non riusciranno a inventare qualcosa di meglio, quella masnada di servi intimamente corrotti dall’accettazione del “mondo così come vogliono che sia” i loro e nostri padroni, con la complicità di quelle masse che s’agitano tra cancri e ospedali, slalom e scontri motorizzati, vite lunghe e morti dell’anima, televisione per i vecchi e festa-continua per i biologicamente giovani. (Berlusconi e Veltroní presumono di saper bene di cosa parlano e cosa stanno facendo agli altri e a se stessi – alle loro spalle l’ombra minacciosa dei misteriosi manipolatori di ogni progresso). Eppure è indispensabile non accontentarsi, è indispensabile cercare. “Chi è vivo non dica: mai”, ricordano i classici. È dunque indispensabile elaborare utopie, inventare mondi possibili. Che palle, gli slogan del genere “un altro mondo è possibile” gridati da folle che mai rinuncerebbero a un’automoblile o motocicletta o televisore o condizionatore, banali nemici della natura, del clima, della sopravvivenza della vita sul pianeta! La felicità non costa niente, dicevano ancora i classici, le cose migliori dell’esistenza non costano niente; ma lo dicevano più volentieri tutti gli accaparratori di spazi e di ricchezze che erano comuni, e di questi slogan facevano, come della cristiana rassegnazione, un’arma per la loro ascesa, un altro dei tanti modi di “ingannare il popolo”. Tutto costa, ahimè, anche se c’è un regno della necessità reale, e uno delle necessità indotte e false. Spezzare la catena, rompere il cerchio. Ma come? Ecco perché è indispensabile pensare e ripensare su come dovrebbe essere il mondo giusto per i nostri figli, lo spazio giusto per la loro crescita, armonica e insieme avventurosa come è bene che sia. Occuparsi di “città” e di “bambini” vuol dire – se siamo ancora in tempo, e saremmo ancora in tempo per limitare i danni definitivi – ripensare il futuro, anzitutto, e poi, sulla linea delle utopie che avremo definito secondo criteri di giustizia e di libertà, tornare sulla terra, nella città concreta dell’oggi e dell’immediato domani, e vedere come quei principi, quelle acquisizioni possano venire tradotte nella realtà. Nei limiti del possibile (ma forzando questi limiti per il possibile). La città che davvero può piacerci non c’è o non c’è più; dobbiamo dunque immaginarla, studiarla, “disegnarla”; e dopo darci da fare perchè diventi, nei limiti del possibile, (ma forzandoli per il possibile) visibile e raggiungibile.

di Goffredo Fofi

Su gentile concessione dell’autore (già pubblicato su Tricromia – T#06 _ Introduzione alla mostra di disegni di Jacques de Loustal).