Oggi con il C.A.P. tentiamo un esperimento: apriamo con lo scritto che segue, una rubrica di recensioni di testi letterari e saggi sull’architettura il paesaggio e d’intorni. Lo facciamo con i nostri mezzi ma con l’impegno che caratterizza le nostre scelte! Tenteremo in questo nuovo percorso di scegliere e analizzare alcuni titoli, non necessariamente nuove uscite editoriali e non solo saggi, ma anche monografie, romanzi, e quanto abbia la capacità e la “sfortuna di capitare sotto i nostri occhi!

Con questo nuovo input vogliamo rendere più completo l’approccio verso i temi trattati in questo spazio, stimolare i lettori, creare ulteriori temi di confronto, ed accrescere il numero e la qualità dei riferimenti apportati al dibattito, e costituire magari (nel tempo e con il Vostro aiuto) un archivio importante a cui riferirsi e da cui partire per le proprie ricerche! Ribadisco con piacere quindi quanto riteniamo utile la Vostra collaborazione, i Vostri suggerimenti e la partecipazione, nel proporre e suggerire nuove letture, o nel sottoporre a tutti i lettori la Vostra personale interpretazione di alcuni testi.

Il primo testo, che avrà l’onore di aprire questa rubrica è “Lightscape Pescara. Ecologia 5”, di Andrea Mammarella e Giuseppe Tavani, con prefazione di Paolo Desideri; edito da Sala Editori.  Autore della nostra recensione è Andrea Iezzi.

copertina

Recensire il libro “Lightscape Pescara. Ecologia 5” non è facile. Nella mia mente si intrecciano immagini diverse. Assistere alla presentazione, avvenuta il 23 settembre scorso, presso la Libreria Edison, a Pescara, alla presenza degli autori, e la lettura vera e propria del libro. Il quale non manca di interessare.
E’ un libro composito, che intreccia più voci, che non sempre trovano un accordo. Mi piace l’attenzione, a volte sociologica, dei saggi di Andrea Mammarella, soprattutto quelli a chiusura del libro. Si sente l’interesse verso la parte viva dell’Architettura, fatta dagli uomini che la abitano, e che costruiscono un luogo, una realtà. Non capisco invece le ampie sezioni didattiche sulla “Città Giardino” e la “Città Verticale”, che dovrebbero confutare l’ipotesi che Pescara sia l’una o l’altra…
Anche le fotografie mostrano una forma urbana lontana dall’estetica da cartolina che fa censurare gli aspetti meno rassicuranti della nostra realtà urbana.
Quando si parla dell’oggetto del libro, del suo nocciolo, la proposta di una “pianificazione leggera” del territorio, libera da freni e vincoli di ogni sorta (anche del classico Piano Regolatore), il discorso si fa più articolato. Paolo Desideri parla di autoreferenzialità del costruito, soprattutto dell’area periferica pescarese, del non-dialogo complessivo delle sue identità… Dice che l’edilizia di oggi non ha rapporto con la “città-giardino” pensata agli inizi del Novecento. Intanto, seppure non conservato integralmente, di questo tessuto urbano restano tracce in vari quartieri. Alla Pineta Dannunziana, per esempio. Perché nessuno degli autori si è chiesto quanto valga questo Patrimonio?
Tutti, evidentemente, danno per scontato che sia superato e debba essere eliminato… Liquidare la storia pescarese in blocco, con il concetto anodino che “a Pescara la storia non c’è” è molto pericoloso, ma funzionale proprio a quella politica di speculazione selvaggia che gli autori rinnegano in apparenza, ma accettano nella prassi.
Col paragone di Pescara a Los Angeles (immagine che invento Guido Piovene nel suo “Viaggio in Italia”), città in cui si viene a cercar fortuna. E chi cerca fortuna se ne frega di vincoli e prescrizioni di ogni sorta. Spesso è un bandito… Per la California penso ai cercatori d’oro… Pescara è così? Una terra di banditi, mi verrebbe da fare un sillogismo…
Pescara non ha una “storia di Città”, il che non implica che non abbia Storia. Il porto di Ostia Aterni, sepolto sotto i piloni dell’Asse Attrezzato esiste. I resti della Sinagoga, divenuta poi Chiesa di Santa Gerusalemme. E in Epoca Moderna (vi parrà strano, cari Architetti, ma, nella periodizzazione storica, il Moderno andrebbe dal 1453 al 1789…), la Fortezza Borbonica, le case dei possidenti (la stessa Casa D’Annunzio) o dei pescatori, le masserie delle ricche campagne fuori dai due borghi di Pescara e Castellammare Adriatico, le Chiese; nell’Ottocento le Ville costruite dai proprietari terrieri, e poi, i villini dei nobili e dei borghesi attratti dalla ferrovia, e dal comodo lusso offerto dal nuovo Capoluogo di Provincia. Dopo c’è stata la Guerra, che non fa affatto tabula rasa; e la ricostruzione, eccessiva, pilotata da una politica in cerca del consenso nell’epoca del “boom edilizio”, che desiderava rifare anche ciò non era stato distrutto…    Perché non si è fatta una riflessione su questo? Dando invece per scontato che ci si trovi davanti alle “fasi fondative ed eroiche del Movimento Moderno”?
Sono certi, i nostri Architetti, che il passato è nocivo al progresso; e che noi saremmo fortunati, non avendone? Abbassando la soglia dei Vincoli e delle “prescrizioni”, cosa migliorerà? Non aumenterà anche l’entropia del “sistema-città”?
In soccorso a questi interrogativi, mi ricordo dei discorsi in sala fatti da Giuseppe Tavani, che sostiene come “Il metroquadro e il metrocubo frenano la ricerca del nuovo degli architetti e ingessano l’economia”. In sala sono presenti politici di maggioranza e opposizione, e il presidente della locale Associazione dei Costruttori, felice di essere stato invitato al tavolo. Tutti sono uniti e plaudenti negli interessi speculativi, al di là della loro idea politica (se ne hanno una), al di là della loro idea di sviluppo sostenibile… I concetti passano, come le mode, gli appartamenti e i conti in banca no…
La facies urbana, quanto più è svincolata, tanto più dipenderà dalle contingenze (committenza, Amministrazione pubblica). Non mi pare che nel quadro odierno ci sia l’intelligenza di rinunciare alla speculazione selvaggia. Questo è il “peccato d’origine”, che gli autori cercano di esorcizzare, ma che resta visibile agli occhi di tutti.
Ecco i limiti del libro. Appiattire la storia per dar luogo a un teorema, molto utile all’Amministrazione, alle prese con problemi giudiziari e deontologici, ma pericolosissimo per la Città, e per chi ci vive. Non dimetichiamo che uno dei canali più fiorenti del riciclaggio del denaro sporco in Abruzzo è proprio il settore immobiliare e i tanti centri commerciali che hanno infestato la Val Pescara.
Si passa dall’idea di “città veloce”, a quella di “città leggera”. Da uno slogan futuristico, a uno che ricorda le “Lezioni Americane” di Italo Calvino.
Nel saggio di Giuseppe Tavani, accanto ad alcune riflessioni condivisibili, si citano Gabriele D’Annunzio ed Ennio Flaiano, come campioni del “genio pescarese”. Quanto al primo, amava il passato di un amore folle. Ricordo solo l’iniziativa per il restauro di San Clemente a Casauria e il suo discorso addolorato su Villa Ludovisi a Roma, prima della lottizzazione. Sono testi che potrebbero essere considerati prodromi dell’ambientalismo in Italia (oltre al suo rifiuto di una casa a Pescara che l’Amministrazione comunale, in cerca di pubblicità, gli aveva offerto). Per Flaiano, lo sgomento è ancora più forte. Vivendo in una fase traumatica di devastazioni urbanistiche, del dopoguerra, nel “Viaggiatore Scontento” (da “Le Ombre Bianche”) come in altri scritti, manifesta la rabbia verso la presunzione del nuovo ricco che distrugge tutto ciò che è antico, perché oscuramente gli ricorda il suo passato di povertà. E compare l’incomprensione verso i suoi concittadini, che si gloriano di ogni nuova distruzione. “Ecco un’altra gru!” gridava con gioia un pescarese, giovane in quegli anni, ogni volta che vedeva demolire una villa antica. L’incomprensione di Flaiano è stata la mia incomprensione, da quando ho conosciuto questa Città.
Andrea Iezzi