Roberto Secchi

Il contesto, l’architettura e la forma, il rapporto tra l’uomo e la Terra, le avanguardie degli anni ’60, e l’importanza della scala umana del progetto, i nuovi strumenti di rappresentazione.
Queste sono solo alcune degli argomenti discussi con Roberto Secchi oggi, in un incontro tenutosi in Facoltà a Pescara, promosso per il laboratori di tesi in Composizione.

Sulla parete una serie di immagini di personaggi, figure umane e momenti relazionali, ad accompagnare le riflessioni di questo interessante relatore che ha voluto raccontare la sua esperienza professionale e insieme una parte della storia dell’architettura italiana dal dopoguerra ad oggi, concentrandosi soprattutto sul rapporto con il contesto.
La sua nota attenzione verso il progetto urbano, i suoi studi sull’architettura tedesca,  e la ricerca di protesa verso lo spazio delle relazioni umane, sottolineano fortemente insieme alle sue parole la questione dell’etica del progetto.

Hanno colpito soprattutto alcune riflessioni di carattere generale sul tentativo dell’uomo di afferrare la forma nel naturale scorrere della vita. La Forma come intrinseco bisogno (tentativo) di “de-finire”, ovvero ridurre, semplificare, conferire dei limiti, confinare, delimitando un dentro e un fuori e (intrinsecamente) un prima, un dopo e un ora. La forma, quindi, come possibilità di un dove e di un quando. Ma è forse la forma, solo il vano tentativo di immortalare un istante in un continuo flusso in divenire di esigenze e mutazioni formali e prestazionali, nella vita come nell’architettura (sotto-categoria della prima). Da qui nasce una consequenziale riflessione, cioè questa istantanea rappresenta la verità, o se non altro la ricerca di questa. Si tratta se non altro di un’interpretazione della verità.
Un intervento urbano, un progetto, è infatti (speculazioni e mediocrità a parte) un’interpretazione del paesaggio, della città, del contesto, e quindi la verità del progettista. Ma come tale, una sola possibile verità, non la realtà! Da qui però infinite considerazioni scaturiscono circa il significato di verità e realtà. Pertanto quella che inizialmente potrebbe apparire come un interrogativo senza fine, una questione paralizzante per la responsabilità che ne attribuisce al progettista, tutto sommato si trasforma in una questione etica, che di certo non alleggerisce il peso gravante sulla matita dell’architetto, ma lo riconfigura in un quadro secondo il quale ogni intervento è soggetto a molteplici interpretazioni, cosicchè le future configurazioni del paesaggio andranno ricondotte entro la logica per cui ogni nuovo progetto rappresenta la personale (e qui entrano in gioca la cultura personale, l’approccio, la formazione, il ruolo del progettista, le necessità della società, ecc.) interpretazione del “volto” che si sta ritraendo sulla tela!
Ovviamente qui le considerazioni circa il fatto che il paesaggio e la città non sono esattamente una tela sulla quale si possa stendere uno strato di bianco e ridipingere come nulla fosse sono alla base di un ragionamento che forse tende a muoversi ad un livello successivo.

Questo lungo ragionamento per giungere alla conclusione che “non si può uscire dalla forma”!
La forma è la chiave dell’interpretazione.

La Forma non è quindi a priori, ma ogni volta è funzione del nuovo approccio con il contesto. Non si può essere schematici, settari e pregiudiziali nella scelta della forma. Ovvia, quando non esplicita la denuncia di certa architettura firmata e riprodotta in serie, e di certa architettura che anche quando coltissima scivola in mediocri banalizzazioni e allusioni alla forma organica, zoomorfa, ecc.
Tanta simulazione della complessità era più degnamente infusa nell’eclettismo, tra le prime concezioni di complessità!

Da qui Secchi più volte si riferisce ai movimenti avanguardisti, e delle loro peculiarità lette attraverso gli stilemi usati nella rappresentazione dell’architettura; fino ad infervorarsi quando racconta della totale assenza della figura umana nelle rappresentazioni di quell’architettura autonomista degli anni ’60, che sottolineava la purezza dell’architettura.
Ed ancora torna il discorso al rapporto con il contesto, fondamentale tanto nella concezione, quanto nella rappresentazione del progetto. Lo skyline ad esempio come strumento per eccellenza del confronto e della verifica dell’oggetto architettonico. Poi una parola sul “foglio bianco”.
Il foglio bianco è follia!!! Terribile atteggiamento progettuale.
L’architetto non disegna sul foglio bianco ma sulla cartografia, sull’esistente, su riferimenti reali al costruito e al paesaggio. L’architetto è soprattutto un tecnico e come tale risponde alla richiesta di contemporaneità!

L’incontro con Roberto Secchi è stato uno di quei momenti che tengono l’attenzione dello studente sempre concentrata e mai lo allontanano con dissertazioni sofistiche ed elitarie, ma sempre con un riferimento all’etica e alle relazioni storiche. Lezione interessante!