Il dibattito che si è finora sviluppato sul destino della ex Centrale del Latte può aprire prospettive importanti per le sorti dell’intero patrimonio architettonico di Pescara. Va subito precisato che l’edificio era di primaria importanza sia per la storia della città, sia per gli intrinseci valori architettonici. Le osservazioni recentemente avanzate per evidenziare i limiti dell’azione di tutela e la scarsa rilevanza della Centrale appaiono pretestuose. Sorto negli anni del decollo della città capoluogo, l’edificio di Pescara ben rappresentava una tipologia diffusa in tutta Italia a seguito del Regio Decreto 994 del 1929, che favoriva la nascita di impianti per garantire la fornitura di latte e il miglioramento dell’alimentazione degli italiani, ancora rintracciabile in numerosi esempi, come a Brescia, a Vicenza o a Roma. Collocata al di fuori del nucleo urbano, come di prassi, sulla stessa via del Circuito sui cui si attestava l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia, la Centrale di Pescara – come i palazzi del Governo e del Comune, la Casa Balilla, l’ufficio postale, la stessa nuova cattedrale – rappresentava lo sforzo di crescita di una comunità locale aperta ai fermenti nazionali. In questo quadro, la questione dell’autorialità è tutto sommato secondaria, e fa capo ad un modo ormai superato di intendere la tutela. Tuttavia, le indicazioni che portano a Florestano Di Fausto, progettista di spicco del regime fascista e impegnato a Tirana, in Libia e nel Dodecaneso, sono chiare, grazie agli studi recenti di Fabrizio Di Marco: la Centrale è menzionata fra le opere di Di Fausto fin dalla prima biografia di Michele Biancale e dall’opuscolo dell’impresa Staccioli, attiva a Roma, Pescara e Tirana e storicamente legata a Di Fausto, che pubblica le prime foto dell’edificio appena inaugurato. La questione è stata affrontata nell’ambito di un convegno sulla tutela dell’architettura del Novecento tenuto nella Facoltà di Architettura nell’ottobre dell’anno scorso, con rappresentanti dell’Amministrazione Comunale, dell’Archivio di Stato e della Soprintendenza per i Beni Architettonici e il Paesaggio, i cui atti sono di prossima pubblicazione. Dalle varie relazioni, la nuova Pescara capoluogo appariva come una città di qualità, in cui durante gli anni Trenta erano stati chiamati progettisti fra i più promettenti e attivi dell’epoca, dai giovani Paniconi e Pediconi, ai più esperti Cesare Bazzani e Camillo Guerra, a Vincenzo Pilotti, fino alla potente personalità di Michelucci per l’Aurum; e si tace di tanti altri nomi illustri, fra i quali l’autore, per ora sconosciuto, della felicissima Casa dei Canottieri, di cui urge un sapiente restauro.

Ma oltre al suo valore per lo specifico della storia della città, la Centrale era soprattutto un edificio architettonicamente molto valido: la volumetria tripartita rivestita dal clinker, secondo i canoni estetici dell’epoca, manteneva un taglio funzionalista che ritroviamo in altri edifici dello stesso tipo, in cui ampie finestrature si alternavano a pareti completamente cieche, riscattando l’opera dal tono celebrativo che grava altre opere di Di Fausto.

Malgrado queste qualità, l’edificio non rientrava nel pioneristico censimento del patrimonio storico-architettonico commissionato dal Comune a Lorenzo Bartolini Salimbeni nel 1994, fra l’altro concentrato solo su alcune parti della città. E la cosa non deve stupire più di tanto, perché la tutela del patrimonio storico e artistico non è data una volta per sempre, ma è un processo dinamico, che si affina e si arricchisce di dati; cosicché oggi siamo più avvertiti nei confronti dell’architettura del Ventennio, mentre in un prossimo futuro ci troveremo a tutelare edifici oggi praticamente ignorati.

Queste considerazioni non attenuano, è chiaro, le responsabilità delle autorità comunali, almeno di quelle preposte allo sviluppo urbanistico della città. Ma è ugualmente forte la responsabilità dei progettisti che dovrebbero comunque accogliere la conservazione dei valori architettonici come un impegno costante del loro operare. Chi progetta è chiamato a un ruolo di responsabilità, nel mediare tra le esigenze della committenza e le istanze della comunità civile, che ha necessità di riconoscersi nella propria storia e nei propri valori estetici. E nella consapevolezza che la conservazione del patrimonio storico architettonico non sia un’attività per anime belle nostalgicamente orientate al passato, ma uno strumento di critica di modelli di sviluppo dati per scontati.

Per questo la vicenda della ex Centrale assume un ruolo più ampio del singolo, piccolo edificio. E’ infatti in gioco il destino dell’intera città, sottoposta a spinte speculative sempre meno controllabili – come dimostra anche il recente volume La colata curato da Ferruccio Sansa– che stanno modificando la struttura urbana. Consistenti minacce investono da tempo quanto rimane del borgo Marino, testimonianza non secondaria di una storia “dal basso” della città, o le architetture floreali delle ville del lungomare, nel loro precario equilibrio con il paesaggio costiero. Non passa inosservata la recente decimazione del tessuto storico della città novecentesca, con demolizioni da via Michelangelo Forti a via Ravenna, non certo di capolavori architettonici, ma di dignitose testimonianze di un rapporto ordinato tra costruito e spazi urbani. I recenti vuoti saranno colmati da edifici a maggiore densità abitativa, complice il “piano casa”, certamente più lucenti e invitanti, ma con un incremento di abitanti, quindi di traffico, di automobili da parcheggiare, di inquinamento, di rumori, di polveri, ecc. Un processo di addensamento e crescita verticale dell’area centrale che lascia perplessi, a fronte di un patrimonio abbandonato nei borghi e nei paesi dell’entroterra, che potrebbero invece trovare nuovi significati in una rete articolata di insediamenti e servizi, all’insegna della sostenibilità dello sviluppo urbano.

Ancorché tardive, le disposizioni prese dalla competente Soprintendenza, sostenuta da battagliere associazioni cittadine, per la salvaguardia della Centrale appaiono pienamente condivisibili e in linea con il quadro nazionale di tutela di simili memorie. Nessuno pensa che il moncone debba rimanere nello stato attuale e appare difficile passare a una totale ricostruzione “come era e dove era” di un edificio degli anni Trenta, anche per l’esito deludente che si rischierebbe. Piuttosto si può pensare a una reintegrazione di quanto rimane del prospetto e a una sua conservazione nell’ambito del nuovo progetto, così come si è cercato di fare in altre città, dove le testimonianze di archeologia industriale diventano contenitori per attività al servizio della cittadinanza. Una sfida che potrebbe restituire profondità storica al brano di città in formazione e che costituirebbe la pietra angolare di un ritrovato rapporto della città con il proprio passato.

Claudio VARAGNOLI

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