Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 13 maggio (decreto sviluppo), lascia quantomeno basiti la norma che nell’articolo 4 eleva da cinquanta a settanta anni la soglia per la presunzione di interesse culturale degli immobili pubblici.

La norma, peraltro in contrasto con quanto previsto dallo stesso Codice dei Beni culturali (del quale semmai ci si aspetta una modifica di coerenza e non un intervento “toppa” quale è un decreto), mette a rischio buona parte del più recente patrimonio culturale italiano fin’anche a toccare i più tardi interventi fascisti e non meno opere realizzate da alcuni dei nomi più rappresentativi della nostra architettura moderna (nomi come Albini, Gardella, Isola e Gabetti, ecc.).

Sebbene per fortuna raramente capita che siano le grandi opere a rischiare (anche se vale la pena ricordare la colonia marittima di De Carlo a Riccione) ciò che invece risulta in pericolo è quell’enorme patrimonio post bellico (penso ad esempio all’abitare sociale costruito negli anni ’50 e ’60 che spesso resta il miglior interprete della cultura architettonica pubblica, ma anche potenzialmente il Palazzo della Civiltà Italiana a Roma) che potrebbe venire sostituito con troppa facilità senza che vi sia neppure l’accertamento di interesse da parte della soprintendenza (dispositivo fortemente democratico nato quando lo stato avevano idea di quali fossero le reali risorse del paese).

Mi permetterete l’azzardo di accostare questo assurdo normativo con un’altra anomalia (proposta nei giorni scorsi e rimbalzata su tutti i media), quella che riguarda l’enorme allungamento dei tempi di rinnovo delle concessioni del demanio pubblico ai balneatori. In entrambi i casi la logica sembra favorire alcuni a discapito di molti (di tutti direi…). Ancora una volta il messaggio è che la città, non è il luogo dove il diritto della cosa pubblica subordina e coordina il diritto del singolo in un perfetto incastro, bensì il terreno della speculazione dove al valore del pubblico e del bello (se mi consentite di usare un termine ormai considerato quantomeno romantico), si sostituisce l’interesse dell’imprenditore, ritenuto, in maniera molto miope, l’unico soggetto capace di attivare economia e risorse.

Il paese dagli anni ’70 ad oggi (con incredibile continuità e coerenza svincolato da ogni alternanza politica) amplia il suo patrimonio edilizio incrementando il parco “macchine” (per citare il Corbu), piuttosto che recuperare e conservare l’esistente, a fronte di un mercato dell’abitare in assoluta crisi e con un rapporto tra affitti e proprietà di 1 a 3, esattamente invertito rispetto al dopoguerra, ed alla situazione europea.

Sento continuamente, parlare del settore edile quale termine di paragone per comprendere la situazione economica del paese; parafrasando: “se sta bene l’edilizia, sta bene l’Italia”. Ma l’affermazione potrebbe essere altrettanto vera se invece che solo di nuove costruzioni, le imprese si occupassero anche di recupero, consolidamento, restauro, ecc. come la maggior parte delle piccole imprese sul territorio già fa. Quindi dov’è il problema?

Viene da sospettare che gli imprenditori che si intende favori non siano le piccole e medie imprese, quelle che rappresentano cioè l’80% della forza occupazionale del paese, la quale avrebbre davvero bisogno d’incentivi, bensì le grandi holding, che investono all’estero, in grado di acquistare materiale a bassissimo costo, e che sostengono un altro grande mercato lobbistico, quello delle cave e dei produttori di calcestruzzo.

A vederla così tutto quadra!