Devo ammetterlo: Maccio Capatonda mi ha sempre dato sui nervi, con il suo fare satira demenziale al limite della volgarità.

Ma il suo ultimo film è sorprendente. Sarà che è ambientato nel nostro Abruzzo, sarà l’accento familiare seppur distorto, sarà per le belle immagini, per la fotografia e il senso dell’assurdo che fa tanto ‘fascino del grottesco’.

Sarà…ma quello che più ha attirato la mia attenzione è la riflessione sottesa che Omicidio all’italiana ci porta a fare sulla bellezza, che sta pagando pesantemente il suo non riuscire più ad essere condizione imprescindibile di crescita per la collettività.

Il giallo, montato di proposito dal Sindaco (Maccio Capatonda) e da suo fratello/vice sindaco (Herbert Ballerina) grazie ad una fatalità, racconta sì le difficoltà di un territorio ormai in stato di abbandono ma solleva, anche e soprattutto, il problema della mancanza di visione delle amministrazioni locali che si arrendono alla ‘modernità’, rischiando di trasformare piccole realtà in uno show raccapricciante. La contemporaneità è vittima dello scandalo, e così le nostre città, che invece di vedersi valorizzare le proprie risorse, il proprio patrimonio architettonico e paesaggistico, vendono la propria identità sociale per un paio di giorni di visibilità mediatica.

Corvara (Acitrullo nel film) è un piccolo paese abitato da sei persone, qualche cane e diverse capre. È uno dei tanti centri abruzzesi abbandonati ma scelto dal regista per la sua bellezza e capacità di dialogare con il paesaggio circostante. Come per il dialetto con cadenza indecifrata, simbolo di un territorio fatto di piccoli agglomerati simili ma tutti diversi tra loro, Corvara rappresenta più una condizione che altro: gli abitanti rincorrono il ‘nuovo’, come spesso accade in questi comuni, andando paradossalmente incontro al vecchio, al già visto, a quello che oggi potremmo definire ‘vintage’. Ne è un esempio la scena in cui finalmente, i protagonisti raggiungono Campobasso, città della modernità e del progresso. In un bar di un centro commerciale anonimo e privo di identità, si accorgono che in fondo l’unicità del loro contesto è molto più contemporaneo di un finto locale anni ’50. Lo è anche l’interesse che suscita l’arrivo delle troupe televisive, le carovane di turisti del crimine e l’accettazione di una verità imposta per cui il presunto assassino è tale solo perché l’audience lo ha deciso.

Nonostante il film ci lasci un po’ perplessi ed angosciati per tutta la sua durata perché, seppur surreale, fortemente vero per tematiche e riferimenti reali a personaggi (una per tutte Donatella Spruzzone, interpretata da Sabrina Ferilli), ci regala un finale positivo. A volte l’innovazione e, dunque, il successo del nostro paese si nasconde proprio nel quotidiano, nelle piccole cose e nella bellezza/risorsa del nostro territorio.

In un’intervista, alla domanda “Il finale del film ci ricorda l’importanza delle nostre radici. Acitrullo diventa anche un simbolo di quell’Italia abbandonata, di quei piccoli borghi che stanno scomparendo. Tu cosa ne pensi?” il registra dice : “Non devono assolutamente scomparire. Oggi siamo tutti troppo interconnessi, nel virtuale. Invece trovo che sia importante avere ancora un posto, vero e reale, dove stare. Siamo tutti “sempre ovunque”, senza punti di riferimento. Non sappiamo più cosa è importante e cosa non lo è. Io lo sto vivendo sulla mia pelle perché sono nato in un periodo in cui non c’era tutto ciò e noto questa mancanza di importanza che si dà alle cose. Oggi siamo immersi in un caos di informazioni e situazioni e non sappiamo più a cosa dare rilievo. Bisogna tornare a riappropriarsi della singolarità e dell’unicità delle cose.” (http://www.cameralook.it)