Reliquie del santo e cattedrali nel deserto – Il caso porta nuova di Pescara

ipotesi fater

La nostra nuova rubrica “uno scempio al giorno” ci porterà a riflettere sull’infinita serie di “trasformazioni aggressive” che, nella nostra regione, hanno stravolto o annullato identità, testimonianze storiche, vita di tutti i giorni…certamente senza avere in cambio vantaggi.

La prima osservazione non poteva che cadere sulla stazione di porta nuova a Pescara con il suo intorno; l’indecisione tra un recupero serio del comparto storico e la pressione dei privati di fare tabula rasa ha portato a soluzioni progettuali che persino negli anni sessanta facevano discutere ovvero la liberazione di elementi ritenuti inutili e la conservazione di soli frammenti, facciate o monconi che (specifichiamo) non sono in queste condizioni per crolli improvvisi ma per volontà progettuale!

(troviamo un esempio chiaro di questa abitudine esecutiva del passato recente in

G. Carbonara, La reintegrazione dell’immagine,Roma 1976,fig. 9 e 34)

fotomontaggio portanuova

E’ il caso dell’edificio della vecchia stazione, liberata di tutto ciò che aveva nelle sue vicinanze, fabbricati industriali integri, il villino ad angolo di via Italica, la stesso volume della stazione della quale hanno salvato solamente la facciata, “tecniche costruttive di reliquiari” possiamo dire; le prossime vanno a toccare invece il vecchio fabbricato della fater per il quale è previsto demolizione dei capannoni retrostanti la facciata degli uffici e la rimessa recentemente restaurata alla destra della stessa, rappresentativa di una tipologia edilizia ricorrente in zona (fronte simmetrico con parte centrale rialzata); al posto di tutto ciò è prevista l’apertura di uno spazio pubblico (e fin qui nulla di male,anzi…) intorno al quale articolare due torri residenziali di altezza pari alla torre del centro commerciale “il molino”(quindici piani circa), ciò avrebbe quindi due effetti: l’aumento della densità abitativa di un area già satura (basti pensare alla viabilità e ai parcheggi) e la negazione della volontà progettuale di creare uno spazio aperto. Infatti non è difficile immaginare l’effetto “soffocante” che edifici di tale altezza imporrebbero a una superficie limitata e già circondata da colossi destinati a ufficio e abitazione, un modo di costruire già sperimentato in passato di cui il quartiere di S.Donato è uno dei risultati. Questa tipologia edilizia e urbanistica è frequente negli anni settanta e ha portato al degrado delle periferie e ai noti problemi di ordine sociale.

Piccole modifiche a questa visione potrebbero alleggerire la portata dell’intervento e aumentare la qualità architettonica e abitativa: ad esempio la conservazione e il recupero degli immobili che affacciano su via Italica e nuove strutture meno impattanti e meglio armonizzate con il contesto oltre che al rispetto dell’altezza media del comparto (e non la massima!).

In aggiunta non guasterebbe l’abbandono di un pensiero speculativo “palazzinaro” e una maggiore cultura personale di progettisti e committenza…sarebbe già tanto andare oltre gli anni sessanta e sfogliare due riviste di architettura contemporanea.

 

Alfredo Mantini e Davide Fragasso.