Pescara è una città che pare voglia mostrare soltanto il suo passato più recente, pur affondando le proprie radici nei sentieri della storia già da millenni. Ma di rilevante curiosità è stata la sua esplosione demografica avvenuta esponenzialmente tra la fine del 1800 e gli anni ‘60/’70 del ‘900 che andò a sviluppare un’urbanistica a scacchiera degna di una città americana. Fu capofila in Abruzzo e in Italia di avanguardie e sperimentazioni, ma – ahimè – quel passato ruggente è stato spesso scomodo per la crescita e la proiezione verso il futuro. Si può definire Pescara “una divoratrice di se stessa” poiché è talmente tanta la smania del progresso che gli stessi pescaresi, o chi per loro, tendono a demolire le tracce storiche che potrebbero essere preservate. Ad oggi la città si presenta come un mosaico variopinto, dove spesso i tasselli antichi e moderni sono in netto contrasto, ma forse è davvero questo il punto focale dell’architettura post-moderna. È avvenuta, e si sta compiendo tutt’ora, una sorta di “consumismo del mattone”: una volta che un edificio vecchio non serve più, si elimina senza recriminazioni, sentimentalismi o rimorsi. Talvolta sarebbe molto più economicamente vantaggioso riparare che costruire ex novo. Un occhio vigile potrebbe notare, passeggiando per il centro cittadino, il quale si perimetra in linea di massima tra l’Area di Risulta, Via De Amicis, il lungomare ed il lungofiume, che di questi organismi edilizi “guasti” se ne scorgono in quantità. Non sarebbe culturalmente interessante proporre dei progetti di recupero, restauro e riqualificazione per questi relitti in muratura (assimilabili alle ghost town abbandonate) per dare lustro e decoro a Pescara? Magari destinarli a poli museali, attrattivi, artistici o comunitari senza ferire ulteriormente il tessuto urbano.